Undicesimo giorno prima delle Calende di luglio
Quando Aurelio rientrò era appena l'alba, ma già la grande domus ferveva di attività: un nugolo di servi, armato di secchi e strofinacci, aveva sparso sul pavimento a mosaico la segatura di legno, e ora si dava da fare a togliere ogni traccia di sudiciume; le lavandaie andavano e venivano coi cesti colmi di biancheria bagnata, mentre una legione di sguatteri, inalberando piumini di palma e pertiche sormontate da spugne assorbenti, si lanciava all'assalto della polvere sulle colonne rosate del peristilio.
- Eccolo, il padrone! Ve l'ho detto che non era a dormire, si alza sempre prestissimo, per attendere ai suoi gravi compiti! - esclamò Paride, mentre una piccola folla si precipitava sul patrizio assonnato.
- Ti ho portato una supplica per Claudio Cesare – disse una vecchia rinsecchita, tirandolo per la veste.
- Mi ha denunciato per due capre, due capre striminzite dalle poppe secche! Sei il mio patrono, devi difendermi in tribunale! - lo aggredì un liberto.
- Hai saputo che fine ha fatto la mia pensione? – insisteva un ometto senza una gamba, che aspettava il sussidio imperiale da tempo immemorabile.
Dei dell'Olimpo, era il giorno della salutatio dei clientes, gemette il patrizio, che se ne era completamente dimenticato.
- Amici fedeli, penserò a tutto io! - tentò di tergiversare, emergendo dall'intrico di toghe stazzonate che il portiere provvedeva a distribuire nel vestibolo ai meno abbienti, perché potessero degnamente presentarsi al loro patrono.
- Vuole farmi abbattere il fico dell'orto! – continuò imperterrito un cliente avanti con gli anni, già completamente sordo. - Sostiene che ho violato i suoi confini, ma io gli ho detto: quando lo saprà il senatore, te la farà vedere lui!
- Sì, sì. Adesso, però, sono piuttosto stanco; ho passato tutta la notte in consiglio con Cesare, a discutere un importantissimo affare di Stato. Se per il momento volete seguire il mio amministratore, vi sarà data la sportula...
- Aspetta, nobile Stazio!
- Solo un momento...
- Sono qui dall'alba... - gridavano i protetti, per nulla intenzionati a lasciarsi sfuggire il potente signore da cui dipendeva la loro fortuna.
Aurelio svicolò, cercando rifugio nel cubicolo di Castore.
- Dei dell'Olimpo, liberami da quella folla! - implorò, mentre il liberto lo guardava sogghignando.
- Con Cesare, eh? Che faccia tosta! - esclamò il greco annusando l'aria. - Da quando l'imperatore usa un profumo così dolce?
- Prestami il tuo letto per qualche ora: sono morto di sonno e quella banda di scalmanati minaccia di invadere la mia stanza... - sbadigliò il patrizio, buttandosi sul giaciglio.
- Abbandonati tranquillo nelle braccia di Morfeo, padrone; a quei seccatori ci penso io! - lo consolò l'impagabile Castore.
Aurelio si distese nel cubile senza nemmeno togliersi la tunica. Per la mente gli passarono, in pochi istanti, immagini e pensieri che avrebbe voluto dimenticare.
Poi il sonno pietoso lo strappò ai suoi ricordi.
Il sole era già alto quando si risvegliò.
Uscito nel peristilio, vi trovò Paride seduto sulla panca di marmo, tristissimo. Dalle terme padronali provenivano schiamazzi e grida festose.
- Lo senti, padrone? Come fosse tutta roba sua! Ha raddoppiato la sportula ai clientes, mandandoli via con un orcio di vino a testa, e un sacco di promesse a tuo nome... E non è tutto! Non si degna di andare ai bagni pubblici, lui, come tutti i servi di questa casa; usa il tuo calidarium, invece, facendosi asciugare da Xenia coi tuoi lenzuoli di lino più fine... Sospetto persino che costringa la povera ragazza a giacere con lui!
- Be', costringere forse non è la parola... - minimizzò il patrizio, rammentando le manovre decise con cui la maliziosa ancella aveva sedotto Castore in Campania.
Paride attese un attimo, nella vana speranza che il padrone prendesse provvedimenti contro il suo arrogante segretario, e quando fu chiaro che Aurelio non aveva alcuna intenzione di intervenire, si risolse a prender commiato con aria piuttosto risentita.
Il senatore si ritirò nel suo studio presso la biblioteca, portandosi appresso un calice di vino caldo. Seduto al piccolo tavolo di ebano davanti al busto di Epicuro, cercò di fare il punto della situazione.
Presto, tuttavia, dovette scuotere la testa, abbacchiato: non aveva ancora fatto un passo avanti, da quando Cesare gli aveva affidato quel delicato incarico.
In ballo, stavolta, c'era addirittura il favore del principe, ma non era questo che preoccupava il patrizio: per colpa del suo aristocratico orgoglio, Aurelio non aveva mai sollecitato la protezione di Claudio, e avrebbe potuto continuare benissimo a vivere facendone a meno; né, d'altra parte, temeva che l'imperatore chiedesse la sua testa, in caso di fallimento della missione. No, era la stima del vecchio, solitario amico, che adesso il popolo chiamava dio, il grande tesoro che rischiava di perdere: il suo antico maestro di etrusco, ora onnipotente, gli aveva chiesto umilmente aiuto, e per nulla al mondo avrebbe voluto deluderlo.
“Vediamo”, si disse scuotendosi. “A che punto sono? Ho due reziari morti, e una certa idea di come potrebbero essere stati uccisi. Sul nome del responsabile, invece, navigo nel nulla... se la mia ipotesi è vera, il colpevole dovrebbe essere un altro gladiatore. Ma come poteva l'assassino, ammesso anche che fosse stato in grado di procurarsi un veleno tanto potente, far sparire l'arma letale dopo il delitto? I sotterranei dell'arena sono stati perquisiti accuratamente, e così gli atleti...”.
Che dire, poi, riguardo a Nissa? Era stata lei a drogare Chelidone, prima che l'intervento tempestivo di Flaminia rimettesse l'atleta in condizione di tornare in campo. Improbabile, però, che avesse agito di sua iniziativa: obbediva di sicuro a un ordine di Maurico, a cui doveva parecchi favori, non ultimo quello di averla sbarazzata del suo primo lenone. L'avvocato la teneva saldamente in pugno, pronto a distruggerla da un momento all'altro come l'aveva creata...
Sì, dietro a tutto questo doveva esserci l'ombra di Sergio, che tirava le fila di un gigantesco giro di scommesse a cui non erano estranei parecchi gladiatori e lo stesso lanista. Chissà quante altre volte, in precedenza, Aufidio aveva truccato gli incontri all'insaputa dei combattenti stessi...
Tuttavia, se Chelidone se ne fosse accorto, e si fosse rifiutato di prestarsi al gioco, il compito affidato a Nissa prima, e a Turio poi, sarebbe stato quello di ucciderlo, non solo di stordirlo con una droga!
Aurelio scattò in piedi, irritato con se stesso. Ridicolo, si disse: un avvocato del calibro di Maurico, con soldi a palate, non avrebbe rischiato la pena capitale per soli cinquantamila sesterzi, soprattutto sapendo che la vittima era un cittadino romano, e non uno schiavo, come tutti credevano.
Quella truffa, inoltre, non costituiva certo l'unica fonte di reddito dell'astuto oratore, che manteneva alle sue dipendenze una schiera di ferrati giureconsulti, abilissimi nel reinvestire in imprese legali i proventi delle sue attività più sospette. Sergio possedeva terreni, quote di banche e immobili in tutta Roma; quando metteva l'occhio su una costruzione interessante, il proprietario, volente o nolente, era costretto a cedergliela o rischiava che un incendio, del tutto casuale, la distruggesse in poche ore...
Il sistema era noto: non era così che Crasso aveva accumulato, il secolo prima, l'immensa ricchezza che mise poi al servizio di Cesare per aiutarlo a conquistare le Gallie durante il Triumvirato? Nessuno, ovviamente, si azzardava a citare in giudizio personaggi tanto in vista; nel caso di Maurico, poi, correva voce che non fosse salutare deporre contro di lui. Stavolta però, se ci fosse stato il modo di dimostrare la sua complicità nell'omicidio di Chelidone, Sergio avrebbe finalmente pagato non solo per quel delitto, ma anche per tutte le malefatte precedenti.
Chi, tuttavia, osava opporglisi? Chi poteva tentare di aver ragione di un uomo tanto potente, se non lui stesso, Publio Aurelio Stazio, autorizzato da Cesare in persona ad agire in suo nome? Doveva trovare il modo di spezzare quella catena di omertà, o Claudio avrebbe scoperto di aver riposto male la sua fiducia, pensò il patrizio, sconsolato... Occorreva cominciare dall'anello più debole, la vulnerabile Nissa. Qualcosa gli diceva che, dietro le arie da gran dama, la ragazza non fosse poi troppo cambiata da quando subiva le violenze di Vibone: ricca e famosa, sì, ma sempre strumento di qualcuno.
La mima era proprio quel tipo di donna che, incapace di vivere senza il giogo di un padrone, si libera di un profittatore solo per cadere nelle grinfie di un altro: eterne bambine, sotto il bistro e i lustrini, che anelano l'autorità di un padre, per violento e brutale che sia... Così, dopo Vibone, era venuto Maurico: perché allora non operare una terza, proficua sostituzione?
Aurelio si alzò dal tavolo e prese a osservarsi attentamente all'antico specchio di rame appeso alla parete, non senza un certo compiacimento. Era un membro del Senato, nonché procuratore di Cesare; veniva da una stirpe nobilissima e, malgrado avesse passato da poco i quaranta, si manteneva bene... senza contare la sua fama di libertino, un po' usurpata, a dire il vero. Perché mai non sarebbe potuto diventare il nuovo, esigente padrone della piccola Nissa?
Deciso, uscì di getto nel peristilio: sarebbe andato da lei, a reclamare i suoi diritti, subito, e in tutto il suo fulgore. Era pronto persino a sudare nella pesante toga di lana ornata dal laticlavio, per mostrarsi ancora più autorevole. Naturalmente, avrebbe indossato i calcei curiali con la lunula di avorio, e i gioielli più preziosi della sua dactyliotheca... ma prima, gli occorreva un buon bagno.
- Castore, esci da lì! - ordinò battendo alla porta del tepidarium, seccato che il liberto non avesse ancora terminato le abluzioni. - Nemmeno avessi ripulito le stalle di Augia...
- Eccomi, padrone! - L'uscio si aprì e il greco comparve, roseo e lindo come un bocciolo, salvo l'occhio sinistro, inequivocabilmente nero, e non a causa dello sporco.
In quel momento, la porta si socchiuse di nuovo e dalla stanzetta emerse, tra volute di fumo, un Paride inedito, dalla faccia soddisfatta e volitiva. Aurelio lo guardò incuriosito: il pio intendente appariva in tutto e per tutto conciato come Castore, salvo che l'occhio nero era quello destro. Di Xenia, nessuna traccia.
La casa della mima era ben difesa: gli schiavi annunciatori non ebbero gioco facile a farsi aprire, malgrado sbandierassero a pieni polmoni il nome e la carica prestigiosa di Aurelio.
- Se ne vedono tanti di senatori, qui, ma di Nissa ce n'è una sola! - protestò il portiere, e il patrizio si sorprese a chiedersi cosa avrebbe pensato Catone il Censore di una affermazione come quella.
La diva tuttavia, non appena ebbe udito il suo nome, acconsentì a riceverlo, e Aurelio fu condotto dalle ancelle in un vasto tablinum affrescato con motivi floreali.
Si guardò attorno, perplesso: non vasi attici, o statue preziose, arredavano la grande stanza di marmo rosa, ma un'incredibile collezione di bambole di ogni tipo, con gli arti snodabili e i capelli veri, vestite nelle fogge più strane.
Ce n'erano dappertutto, sugli scranni, sugli sgabelli, sulle seggioline doppie ornate di madreperla; e in mezzo a loro, adagiata sulla spalliera imbottita di un divano all'ultima moda, la bambola vivente, Nissa, che gratificò il patrizio di un lungo sguardo seduttore, lisciandosi i riccioli color cenere che le ricadevano sciolti sulle spalle. “Tinti col sapo di Magonza, e troppe volte”, pensò Aurelio nell'accarezzarne una ciocca. “Cominciano a sfibrarsi”.
Sorrise, fingendosi rapito, mentre appoggiava vicino alla mangusta un bracciale di malachite e filigrana d'oro. La bestiola, che ne indossava uno di rubini, non parve degnarlo di uno sguardo.
- Perché non sei venuto prima? - gli chiese la donna, sfiorandogli il viso appena sbarbato con le dita sottili.
- Credevo che avessi troppo da fare col mio amico Servilio - replicò Aurelio, attento a non farsi incantare.
- Chi? Ah, quel buffo ometto gentile che mi manda i serti di rose! Però non l'ho più visto... e come potrebbe interessarmi, dopo che ho conosciuto te? - gli sussurrò ammiccante.
Il patrizio si era ripromesso di farsi sedurre buono buono, senza protestare, ma davanti a quella frase svenevole perse subito la pazienza e scattò irritato: - Numi, risparmiatemi; questo è troppo! Piccola stupida, non sei capace di limitarti a sorridere e star zitta? Faresti passare qualunque velleità persino al dio Priapo!
Nissa lo guardò costernata, senza capire. Perché mai il suo metodo, tanto collaudato, stavolta non funzionava?
Si mosse quasi automaticamente per raggomitolare sul divano il corpo esposto con generosità sotto la tunica leggera, stringendosi addosso la mangusta ingioiellata come estrema difesa. La bocca si piegò in una smorfia infantile e le labbra sensuali che facevano sognare le folle si chiusero sul pollice, da succhiare in un gesto che non aveva nulla di voluttuoso, ma solo la disperata insicurezza di un fanciullo.
- Non ti piaccio? Tutti gli uomini vanno pazzi per me... - disse con voce incredula.
- Senti, che tu mi piaccia non è importante; ma non credere di potermi raggirare come hai fatto con Tito, sono qui per ben altre ragioni!
- Credevo che... - continuò la ragazza, troppo sconcertata per sentirsi offesa. - Invece tu non mi vuoi, non sai che fartene di me!
Aurelio la guardò: una sola occhiata, fin troppo rapida. Nissa non poteva piacergli, si disse, era falsa, artefatta, volgare. Poi pensò ai suoi doveri nei confronti di Pomponia, e a Servilio, che una sana disillusione avrebbe forse riportato al nido... cercò molte buone ragioni per avvicinarsi al lettuccio e stendersi accanto a Nissa. Tutte, fuorché l'unica vera.
Era giovane, la mimula, vista da vicino, più di quanto apparisse sul palcoscenico... tuttavia non lo sarebbe rimasta lungo: già la bocca le si piegava in una ruga amara, sotto il belletto, già la cerussa bianca aveva cominciato a rovinarle la pelle... Qual era stata la sua vita, prima che approdasse al teatro? Una bambina scalza, che invano desidera una bambola; una servetta stracciona, sedotta appena adolescente da un bruto senza scrupoli. Come poteva ancora desiderare un uomo? Vedere il pubblico che sbavava davanti a lei, e rimanere indifferente: questa era la sua vendetta, la sua difesa.
Forse le discariche di immondizia dell'Urbe, da cui spesso giungevano i flebili vagiti dei neonati scomodi, avevano ospitato già i frutti del suo ventre, o forse unguenti e pessari le avevano risparmiato il fastidio di nutrire col proprio sangue i figli della violenza e del meretricio... Ed ecco, a consolarla, la mangusta, le marionette, i giocattoli tanto bramati e giunti troppo tardi per renderla felice.
- Ti ricordi di Vibone? - chiese Aurelio alla donna in tono duro, intuendo che non avrebbe ottenuto nulla lasciando trasparire la pietà che provava per lei.
- Mi picchiava... e ora è morto! - esclamò la mima, rialzando la testa con un sussulto di orgoglio.
- E Chelidone, e Maurico? - incalzò il senatore.
- Adesso sono io che detto le leggi: chi mi vuole deve pagare, e strisciare al mio cospetto!
- Stupida! È Sergio che ti possiede, ti domina, fa di te quello che vuole!
Per la frazione di un istante, un lampo di terrore passò in fondo alle pupille della donna.
- Non mi farà del male; glielo impediranno... - si riprese subito.
- Ti illudi: il suo gioco sta per essere scoperto, e allora cercherà di mandare te al patibolo, al suo posto, per aver avvelenato Chelidone. Sappiamo già che gli hai dato una droga...
Nissa lo guardò stupita. - Non sono stata io a ucciderlo!
- Che sia stata tu o meno, ne verrai certamente accusata: il tuo caro amico Maurico ha sistemato le cose in modo da lasciarti nei pasticci. Sei solo una mimula, un'attricetta da quattro soldi; e anche se hai il pubblico ai tuoi piedi, per la legge non sei che una “persona abietta”. A chi pensi che crederanno, quando Sergio dichiarerà che di quella famosa pozione non ne sapeva niente, che tu hai agito per gelosia, sapendo che quella sera Chelidone stava per recarsi a casa di un'altra donna?
La ragazza si mangiava le unghie, in silenzio.
- Il tuo complice ti tradirà, Nissa, e tu non hai difesa di fronte a lui... e forse non si accontenterà di accusarti, forse manderà il Lurido a chiuderti la bocca per sempre. Sai che ne sarebbe capacissimo!
A quelle parole la ragazza cominciò a tremare.
- Non è vero, non potrà...
- E chi sarebbe in grado di impedirglielo? - chiese il senatore.
La mima tacque, mordendosi nervosamente le labbra.
- Intendi stare ad aspettarlo o preferisci metterti al sicuro? - volle sapere il patrizio, in tono pacato. - Cesare in persona mi ha incaricato di questa indagine: a chi mi aiuta sarà usata indulgenza... Ora me ne vado. Se vuoi, puoi venire con me; in casa mia ti garantisco un'adeguata protezione. Restando qui, invece, sei nelle mani di Maurico: non ti rimane che scegliere il tuo destino...
Nissa esitò: - Non posso!
- Hai potuto sottrarti a Vibone...
Sotto il bistro dorato degli occhi Aurelio lesse dubbio misto a terrore: in fondo, la ragazza aveva paura di affidarsi a uno sconosciuto, di lasciare la nicchia dorata che tanto faticosamente si era costruita... Ma poi negli occhi della mimula l'immagine del Lurido parve sovrapporsi a quella di Aurelio, e Nissa si decise: meglio quell'uomo strano, che incuteva timore, sì, ma la attirava suo malgrado, che il brutale sicario dalle zampacce pelose che sapevano torturare e strangolare...
- Vengo con te. Aspettami solo un attimo, prendo Piumina, non posso lasciarla qui, è la mia amica, la custode dei miei segreti... - disse, e, afferrata la mangusta, si affrettò a rincorrerlo.
Poco dopo, l'attrice faceva il suo ingresso nella domus di Aurelio, riuscendo a far aprire gli occhi persino a Fabello. Un Castore entusiasta e un Paride piuttosto costernato vennero incaricati della sorveglianza: la presenza della donna, ovviamente, non sarebbe rimasta a lungo un segreto, e gli scherani di Sergio potevano arrivare dappertutto; quindi, a nessuna persona sospetta doveva essere concesso di incontrarsi con l'ospite, almeno fino a nuovo ordine.
Nissa fu accomodata in un piccolo cubicolo, la cui finestra era difesa non solo da grossi vetri opachi, ma anche da imposte robuste: Aurelio dispose che fossero ermeticamente chiuse dall'interno e comandò alcune lucerne per illuminare la stanza.
Castore in persona, di solito riluttante ad assumersi tali incombenze, si incaricò di apprestarle un comodo giaciglio, dotato di un buon materasso di lana della Gallia e persino di un guanciale imbottito di piume di cigno, del quale si impadronì subito la mangusta, accoccolandosi quieta a dormire.
Il patrizio, rassicurato, fece per lasciare la sua ospite.
- Te ne vai, senatore? - chiese la mima in tono dimesso e quasi supplichevole. - Non vuoi davvero stare con me?
Seria seria, accarezzava il mantello della sua bestiola, come se l'animaletto potesse frapporsi tra lei e quel maschio estraneo, indifferente alle sue grazie, sul quale, intuiva, mai avrebbe potuto esercitare alcun potere.
Aurelio sentì il tocco delle mani fredde e tremanti sulle sue spalle. Guardò la donna, e le apparve allora per quello che era: una giovane fragile, indifesa, trascinata in un gioco più grande di lei... Adesso Nissa gli si accostava, tentando di abbracciarlo.
“Devo andarmene”, pensò Aurelio. “C'è qualcosa di falso nelle sue carezze; mi nasconde troppe cose, di certo è una mentitrice e forse anche un'assassina. Ciò che vuole, ora, è illudersi di avermi incantato, per sentirsi al sicuro: non mi desidera, vuole solo pagarmi a modo suo, come pagava l'affittuario nella vecchia insula... E per di più, cosa direbbe Servilio?”.
Fece per alzarsi. Poi fissò la pelle sgranata di Nissa, rimirandone la grazia dei tratti. All'improvviso, sotto il belletto dorato, gli sembrò di vedere un altro volto, un volto che nessun uomo, mai più, avrebbe trovato desiderabile, e sentì che doveva a tutti i costi cancellarne le tracce, per sempre.
Allora si distese accanto alla donna e chiuse gli occhi, accettandone la menzogna.